25 aprile “laico” alla Fondazione Mirafiore

Maggio 5, 2023

Tre gruppi di lettura guidati da Paola e Oscar Farinetti e da Fredo Valla.

Per ogni gruppo, un percorso suddiviso in sei tappe nel Bosco dei Pensieri.

A ogni tappa una lettura di ispirazione resistenziale.

Una festa per ricordare al di fuori di ogni ufficialità il 25 aprile e le Resistenze nel mondo, commentando pagine di letteratura, saggi, testimonianze, commenti, canzoni.

I brani che ho scelto

da SIMONE WEIL (in Francesco Tomatis, “La via delle Alpi”, Bompiani 2019)

Il 13 giugno 1940 Simone Weil fuggì con i genitori da Parigi alla vigilia della sua occupazione da parte dell’esercito tedesco, trovando infine rifugio nel Midi e a Marsiglia a metà settembre 1940.

Nella città provenzale resterà sino al 14 maggio 1942, arricchendosi di rapporti umani e culturali, scrivendo parti decisive della sua opera filosofica e spirituale. Dedicò due saggi alla civiltà occitana, fiorente sino agli inizi del XIII secolo, allorquando venne sterminata nel sangue e nella devastazione dalla sciagurata  e infine autolesionistica politica ecclesiastica di papa Innocenzo III, che scelse il male,  e indisse una crociata contro le popolazioni occitane professanti un cristianesimo troppo puro (cataro) per lachiesa romana, centralista e secolarizzata.

Nel gennaio del 1941 e nel febbraio del 1942 Simone Weil scrisse “L’agonie d’une civilisation vue à travers un poème épique e En quoi consiste l’inspiration occitanienne?”, saggi che videro luce nel febbraio del 1943 in un fascicolo speciale dei Cahiers du Sud, diretti da JeanBallard, dedicato a “Le Génie d’Oc et l’Homme Méditerranéen”.

Weil indica l’Europa come possibile punto di equilibrio, spazio culturale e politico di mediazione.

A quasi un secolo di distanza, le parole scritte dalla grande pensatrice sono ancora attuali. Ci mettono in guardia contro la diffusione del veleno dello scetticismo, che fa tabula rasa nelle anime dei popoli delle loro religioni, tradizioni, lingue, culture.

È lo sradicamento la colonizzazione ancora più grave, quella spirituale, perché senza passato non c’è né presente né futuro per l’uomo. Il passato, infatti, non è costruibile, non è creabile ex novo in alcun futuro, bensì soltanto conservabile e conseguentemente non rinnovabile.

E il passato è l’unica fonte spirituale capace di offrire quel soccorso esterno al presente dell’uomo, senza del quale l’uomo non è tale, bensì materia bruta, materiale umano soggetto alle leggi sopraffattrici della mera forza.

L’hitlerismo – scrive la filosofa nel ‘43 –  colonizza l’Europa come il colonialismo europeo ha colonizzato  le nazioni degli altri continenti. Così fece la Francia del nord con la civiltà occitana. Così fece in passato, assoggettando ogni popolo raggiungibile, l’impero romano, da cui la civiltà europea trae soltanto il suo elemento peggiore,   cioè la nozione di stato e di forza.

La grandezza spirituale della civiltà d’Europa è invece data dalla fonte greca, fusa assieme alla cristiana, entrambe d’origine orientale.

Ma allora così rischia anche di fare – sottolinea la Weil – l’America, una volta conclusa la guerra, nei confronti dell’Europa, colonizzandola almeno spiritualmente, sradicandola, privandola di passato.

Certo, la colonizzazione americana sarà il male minore, rispetto a quello maggiore della hitleriana.

Tuttavia si tratta sempre di un male. “Privando i popoli della loro tradizione e di conseguenza della loro anima, la colonizzazione li riduce allo stato di materia umana” .

Scienza, tecnica e principi democratici sono i valori della civiltà occidentale in senso precipuamente americano, anche se in origine anglosassone ed europeo. Essi ignorano la dimensione spirituale dell’uomo, attingibile solo attraverso il radicamento in un passato, benché rinnovabile e vitalmente trasformabile, e un aprirsi dell’anima a ciò che la trascende, a una dimensione esterna alla mera materia bruta, soggetta ai crudi rapporti di forza e, da ultimo, sempre alla sventura.

Allora ecco come l’Europa, si trova inframmezzo, da un lato, al proprio passato, a cui attingere valori spirituali come la libertà, l’obbedienza, l’amore, in una parola (occitana) il parage, l’esser-pari, la pari-nobiltà – ben più elevata che una piatta, formale, materialista eguaglianza democratica, per nulla universale se non nella sua subdola forza colonizzatrice – e, dall’altro lato, a un presente  di sradicamento culturale di stampo imperialista, brutalmente hitleriano o, male minore, americano.

La sensibilità della civiltà europea saprà farsi spazio dialogico fra le tradizioni orientali, in parte ancora incontaminate, seppur magari mascherate da dispotici regimi, e l’universalismo occidentale, sradicato e tendenzialmente imperiale?

“L’Europa non ha forse altro modo per evitare d’esser stravolta dall’influenza americana se non un contatto nuovo, vero, profondo con l’Oriente”.

Noi Europei ci troviamo nel mezzo. Siamo il perno. Il destino del genere umano dipende interamente da noi per un tempo probabilmente molto breve. Se ci lasciamo sfuggire l’occasione, sprofonderemo probabilmente molto presto nell’impotenza e nel nulla.

PAOLO DALL’OGLIO – Gesuita

Il 29 luglio 2013 veniva sequestrato in Siria il padre gesuita Paolo Dall’Oglio. Da allora se ne è persa ogni traccia. Si è pensato che fosse prigioniero dell’Isis, e che con la disfatta del califfato lo si sarebbe ritrovato. La realtà è diversa: padre Paolo Dall’Oglio è stato sequestrato e ucciso dal regime dittatoriale di Bashar Al Assad a cui il gesuita si opponeva con tutte le sue forze nella speranza di una Siria democratica e di pacifica convivenza tra le varie forze politiche e le diverse religioni: principalmente islam e cristianesimo, un cristianesimo che in quelle terre aveva le sue origini nei primi secoli del giudeo-cristianesimo.

Per vivere appieno il suo ideale, Paolo si era trasferito da Roma in Siria, dove in pieno deserto aveva ridato vita all’antico monastero di Mar Musa (dedicato a San Mose l’abissino), posto in cima a una rupe, decorato di affreschi, pure questi molto antichi. Ne aveva fatto un luogo di  dialogo fra islam e cristianesimo. Su una terrazza del monastero con vista sul deserto, aveva montato una tenda: la Tenda di Abramo, nel ricordo del grande Patriarca. Lì avvenivano gli incontri.

Il fotografo Ivo Saglietti, che due anni fa ha esposto ad Alba, ha documentato con le sue belle foto in b/n quei luoghi straordinari e le persone, la comunità interreligiosa di Padre Dall’Oglio.

Di Paolo dall’Oglio ho sempre in mente le parole che lessi in un suo libro.

Era il tempo in cui preparavo il mio film documentario su Catari e Bogomili – Bogre, la grande eresia europea – e mi interrogavo sulla diversità, sull’essere eretici: non solo nello spirituale, ma nella vita, nella politica quindi. Eresia come libertà di pensiero, come discernimento, come accettazione del pensiero dell’altro, del diverso da noi.

Diversità come armonia nel mondo, armonia come concertazione di visioni diverse del mondo, della vita, delle relazioni fra umani, col Pianeta Terra, con Dio e lo spirituale…

Scriveva Dall’Oglio: “di fronte al diverso da noi abbiamo soltanto due possibilità, accettare la differenza  e considerarla un valore (anche se costa fatica – aggiungo io; è più comodo accomodarsi sul pensiero formulato da altri per noi, dai giornali, dalla tv, dalla propaganda, dagli intellettuali allineati per i pigri di intelletto), oppure eliminarla”. Ed eliminarla sappiamo cosa significa, non dobbiamo sforzarci molto. Vuol dire persecuzioni fino all’eliminazione fisica,  shoah, eccidio degli Armeni, sterminio di intere popolazioni: indios in America Latina,  nativi  dell’America del Nord;  significa tratta e sradicamento dei popoli africani resi schiavi… le stragi di Hutu e Tutsi… Un elenco che potrebbe continuare… e purtroppo continua.

(segue lettura di alcuni estratti di una lettera di Paolo Dall’Oglio a Ivo Sagletti in “Ivo Saglietti – Sotto la tenda di Abramo. Deir Mar Musa el-Habasci – 2004”)

Il fardello dell’uomo bianco

(titolo originale ingleseThe White Man’s Burden) è una celebre poesia di Rudyard Kipling, pubblicata per la prima volta nel 1899 dalla rivista McClure’s, con il sottotitolo The United States and the Philippine Islands; infatti, essa si riferiva soprattutto alle guerre di conquista intraprese dagli Stati Uniti nei confronti delle Filippine e di altre ex-colonie spagnole.

Kipling intende incitare l’uomo europeo a sacrificare anche la propria vita alla causa della “civilizzazione”  del mondo “selvaggio”, sull’esempio di missionari come David Livingstone; per Kipling il fardello dell’uomo bianco non è un privilegio ma “fatica di servo e di spazzino”. Essa venne letta come una sorta di manifesto del colonialismo e dell’imperialismo, e “il fardello dell’uomo bianco” divenne un modo molto diffuso per riferirsi alla necessità di civilizzare i paesi estranei alla tradizione europea, anche forzatamente.

(EN) « Take up the White Man’s burden —
Send forth the best ye breed —
Go bind your sons to exile
To serve your captives’ need;
To wait in heavy harness,
On fluttered folk and wild —
Your new-caught, sullen peoples,
Half-devil and half-child.

Take up the White Man’s burden —
In patience to abide,
To veil the threat of terror
And check the show of pride;
By open speech and simple,
An hundred times made plain
To seek another’s profit,
And work another’s gain.

Take up the White Man’s burden —
The savage wars of peace —
Fill full the mouth of Famine
And bid the sickness cease;
And when your goal is nearest
The end for others sought,
Watch sloth and heathen Folly
Bring all your hopes to nought.

Take up the White Man’s burden —
No tawdry rule of kings,
But toil of serf and sweeper —
The tale of common things.
The ports ye shall not enter,
The roads ye shall not tread,
Go make them with your living,
And mark them with your dead.

Take up the White Man’s burden —
And reap his old reward:
The blame of those ye better,
The hate of those ye guard —
The cry of hosts ye humour
(Ah, slowly!) toward the light: —
“Why brought he us from bondage,
Our loved Egyptian night?”

Take up the White Man’s burden —
Ye dare not stoop to less —
Nor call too loud on Freedom
To cloak your weariness;
By all ye cry or whisper,
By all ye leave or do,
The silent, sullen peoples
Shall weigh your gods and you.

Take up the White Man’s burden —
Have done with childish days —
The lightly profferred laurel,
The easy, ungrudged praise.
Comes now, to search your manhood
Through all the thankless years
Cold, edged with dear-bought wisdom,
The judgment of your peers! »
(IT) « Raccogli il fardello dell’Uomo Bianco–
Disperdi il fiore della tua progenie–
Obbliga i tuoi figli all’esilio
Per assolvere le necessità dei tuoi prigionieri;
Per vegliare pesantemente bardati
Su gente inquieta e selvaggia–
Popoli da poco sottomessi, riottosi,
Metà demoni e metà bambini.

Raccogli il fardello dell’Uomo Bianco–
Resistere con pazienza,
Celare la minaccia del terrore
E frenare l’esibizione dell’orgoglio;
In parole semplici e chiare,
Cento volte rese evidenti,
Cercare l’altrui vantaggio,
E produrre l’altrui guadagno.

Raccogli il fardello dell’Uomo Bianco–
Le barbare guerre della pace–
Riempi la bocca della Carestia
E fa’ cessare la malattia;
E quando più la mèta è vicina,
Il fine per altri perseguito,
Osserva l’Ignavia e la Follia pagana
Annientare la tua speranza.

Raccogli il fardello dell’Uomo Bianco–
Non sgargiante governo di re,
Ma fatica di servo e di spazzino–
La storia delle cose comuni.
I porti in cui non entrerai
Le strade che non percorrerai
Le costruirai con i tuoi vivi,
E le contrassegnerai con i tuoi morti.

Raccogli il fardello dell’Uomo Bianco-
E ricevi la sua antica ricompensa:
Il biasimo di coloro che fai progredire,
L’odio di coloro su cui vigili–
Il pianto delle moltitudini che indirizzi
(Ah, lentamente!) verso la luce:
“Perché ci ha strappato alla schiavitù,
La nostra dolce notte Egiziana?”

Raccogli il fardello dell’Uomo Bianco
Non osare piegarti a un compito inferiore–
E non invocare troppo forte la Libertà
Per nascondere la tua stanchezza;
Che tu gridi o sussurri,
Che tu agisca oppure no,
I popoli silenziosi, astiosi
Soppeseranno te e i tuoi Dei.

Raccogli il fardello dell’Uomo Bianco–
Dimentica i giorni dell’infanzia–
L’alloro offerto con leggerezza
L’encomio facile, concesso di buon grado.
Viene ora a esaminarti, nell’età adulta,
Per tutti gli anni ingrati,
Freddo, affilato da saggezza costata cara,
Il giudizio dei tuoi pari! »
 

Discorso di THOMAS SANKARA all’O.N.U.

New York, 4 ottobre 1984, 39ª sessione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite

Traduzione: Marinelle Corregia

Fonte: http://thomassankara.net/discorso-de-sankara-allonu-le-4-ottobre-1984/?lang=it

Presidente, Segretario generale, onorevoli rappresentanti della comunità internazionale.

Vi porto i saluti fraterni di un paese di 274.000 chilometri quadrati in cui sette  milioni di bambini, donne e uomini si rifiutano di morire di ignoranza, di fame e di sete, non riuscendo più a vivere nonostante abbiano alle spalle un quarto di secolo di esistenza come stato sovrano rappresentato alle Nazioni Unite.

Sono davanti a voi in nome di un popolo che ha deciso, sul suolo dei propri antenati, di affermare, d’ora in avanti, se stesso e farsi carico della propria storia – negli aspetti positivi quanto in quelli negativi – senza la minima esitazione.

Non pretendo qui di affermare dottrine. Non sono un messia né un profeta; non posseggo verità. I miei obiettivi sono due: in primo luogo, parlare in nome del mio popolo, il popolo del Burkina Faso, con parole semplici, con il linguaggio dei fatti e della chiarezza; e poi, arrivare ad esprimere, a modo mio, la parola del “grande popolo dei diseredati”, di coloro che appartengono a quel mondo che viene sprezzantemente chiamato Terzo mondo. E dire, anche se non riesco a farle comprendere, le ragioni della nostra rivolta…

Nessuno sarà sorpreso di vederci associare l’ex Alto Volta – oggi Burkina Faso – con questo insieme così denigrato che viene chiamato Terzo mondo, una parola inventata dal resto del mondo al momento dell’indipendenza formale per assicurarsi meglio l’alienazione sulla nostra vita intellettuale, culturale, economica e politica.

Riconoscendoci parte del Terzo mondo vuol dire, parafrasando José Martí, “affermare che sentiamo sulla nostra guancia ogni schiaffo inflitto contro ciascun essere umano ovunque nel mondo”. Finora abbiamo porto l’altra guancia, gli schiaffi sono stati raddoppiati. Ma il cuore del cattivo non si è ammorbidito. Hanno calpestato le verità del giusto. Hanno tradito la parola di Cristo e trasformato la sua croce in mazza. Si sono rivestiti della sua tunica e poi hanno fatto a pezzi i nostri corpi e le nostre anime. Hanno oscurato il suo messaggio. L’hanno occidentalizzato, mentre per noi aveva un significato di liberazione universale. Ebbene, i nostri occhi si sono aperti… non riceveremo più schiaffi.

Questo mio timore è tanto più giustificato in quanto l’istruita piccola borghesia africana – se non quella di tutto il Terzo mondo – non è pronta a lasciare i propri privilegi, per pigrizia intellettuale o semplicemente perché ha assaggiato lo stile di vita occidentale. Così, questi nostri piccolo borghesi dimenticano che ogni vera lotta politica richiede un rigoroso dibattito, e rifiutano lo sforzo intellettuale per inventare concetti nuovi… Consumatori passivi e patetici, essi sguazzano nella terminologia che l’Occidente ha reso un feticcio, proprio come sguazzano nel whisky e nello champagne occidentali in salotti dalle luci soffuse.

Pochi dati bastano a descrivere l’ex Alto Volta. Un paese di sette milioni di abitanti, più di sei milioni dei quali sono contadini; un tasso di mortalità infantile stimato al 180 per mille; un’aspettativa di vita media di soli 40 anni; un tasso di analfabetismo del 98%, se definiamo alfabetizzato colui che sa leggere, scrivere e parlare una lingua; un medico ogni 50.000 abitanti; un tasso di frequenza scolastica del 16%; infine un prodotto interno lordo pro capite poco più di 100 dollari per abitante. La diagnosi era cupa ai nostri occhi. La causa della malattia era politica. Solo politica poteva dunque essere la cura. Naturalmente incoraggiamo l’aiuto che ci aiuta a superare la necessità di aiuti. Ma in generale, la politica dell’aiuto e dell’assistenza internazionale non ha prodotto altro che disorganizzazione e schiavitù permanente, e ci ha derubati del senso di responsabilità per il nostro territorio economico, politico e culturale.

Abbiamo scelto di rischiare nuove vie per giungere ad una maggiore felicità. Abbiamo scelto di applicare nuove tecniche e stiamo cercando forme organizzative più adatte alla nostra civiltà, respingendo duramente e definitivamente ogni forma di diktat esterno, al fine di creare le condizioni per una dignità pari al nostro valore. Respingere l’idea di una mera sopravvivenza e alleviare le pressioni insostenibili; liberare le campagne dalla paralisi e dalla regressione feudale; democratizzare la nostra società, aprire le nostre anime ad un universo di responsabilità collettiva, per osare inventare l’avvenire. Smontare l’apparato amministrativo per ricostruire una nuova immagine di dipendente statale; fondere il nostro esercito con il popolo attraverso il lavoro produttivo avendo ben presente che senza un’educazione politica patriottica, un militare non è nient’altro che un potenziale criminale. 

Chi mi ascolta mi permetta di dire che parlo non solo in nome del mio Burkina Faso, tanto amato, ma anche di tutti coloro che soffrono in ogni angolo del mondo. Parlo in nome dei milioni di esseri umani che vivono nei ghetti perché hanno la pelle nera o perché sono di culture diverse, considerati poco più che animali. Soffro in nome degli Indiani d’America che sono stati massacrati, schiacciati, umiliati e confinati per secoli in riserve così che non potessero aspirare ad alcun diritto e la loro cultura non potesse arricchirsi con una benefica unione con le altre, inclusa quella dell’invasore. Parlo in nome di quanti hanno perso il lavoro, in un sistema che è strutturalmente ingiusto e congiunturalmente in crisi, ridotti a percepire della vita solo il riflesso di quella dei più abbienti.

Parlo in nome delle donne del mondo intero, che soffrono sotto un sistema maschilista che le sfrutta.

Le donne in lotta proclamano all’unisono con noi che lo schiavo che non organizza la propria ribellione non merita compassione per la sua sorte. Questo schiavo è responsabile della sua sfortuna se nutre qualche illusione quando il padrone gli promette libertà. La libertà può essere conquistata solo con la lotta e noi chiamiamo tutte le nostre sorelle di tutte le razze a sollevarsi e a lottare per conquistare i loro diritti.

Parlo in nome delle madri dei nostri paesi impoveriti che vedono i loro bambini morire di malaria o di diarrea e che ignorano che esistono per salvarli dei mezzi semplici che la scienza delle multinazionali non offre loro, preferendo piuttosto investire nei laboratori cosmetici, nella chirurgia estetica a beneficio dei capricci di pochi uomini e donne il cui fascino è minacciato dagli eccessi di calorie nei pasti, così abbondanti e regolari da dare le vertigini a noi del Sahel.

Parlo, anche, in nome dei bambini. Di quel figlio di poveri che ha fame e guarda furtivo l’abbondanza accumulata in una bottega dei ricchi. Il negozio è protetto da una finestra di spesso vetro; la finestra è protetta da inferriate; queste sono custodite da una guardia con elmetto, guanti e manganello, messa là dal padre di un altro bambino che può, lui, venire a servirsi, o piuttosto, essere servito, giusto perché ha credenziali garantite dalle regole del sistema capitalistico.

Parlo in nome degli artisti – poeti, pittori, scultori, musicisti, attori – che vedono la propria arte prostituita per le alchimie dei businessman dello spettacolo. Grido in nome dei giornalisti ridotti sia al silenzio che alla menzogna per sfuggire alla dura legge della disoccupazione. Protesto in nome degli atleti di tutto il mondo i cui muscoli sono sfruttati dai sistemi politici o dai moderni mercanti di schiavi.

Il mio paese è la quintessenza di tutte le disgrazie dei popoli, una sintesi dolorosa di tutte le sofferenze dell’umanità, ma anche e soprattutto una sintesi delle speranze derivanti dalla nostra lotta. Ecco perché ci sentiamo una sola persona con i malati che scrutano ansiosamente l’orizzonte di una scienza monopolizzata dai mercanti d’armi. Il mio pensiero va a tutti coloro che sono colpiti dalla distruzione della natura e ai trenta milioni di persone che muoiono ogni anno abbattute da quella terribile arma chiamata fame…

Thomas Isidore Noël Sankara 1959 / 1987) è stato un militare, politico, rivoluzionario  e patriota burkinabé, leader carismatico dell’Africa sub-sahariana. Si impegnò per eliminare la povertà attraverso il taglio degli sprechi statali e la soppressione dei privilegi delle classi agiate. Finanziò un ampio sistema di riforme sociali incentrato sulla costruzione di scuole, ospedali e case per la popolazione in estrema povertà, oltre a condurre un’importante lotta alla desertificazione con la piantumazione di milioni di alberi nel Sahel.

Il suo rifiuto di pagare il debito estero di epoca coloniale, insieme al tentativo di rendere il Burkina autosufficiente e libero da importazioni forzate, gli attirò le antipatie degli USA di  Francia e Regno Unito, oltre che di numerosi paesi circostanti. Questo stato di cose sfociò nel colpo di Stato il 15 ottobre 1987, in cui, all’età di 37 anni, il giovane capitano Sankara fu assassinato dal proprio vice,  Blaise Compaoré. Al momento della morte, gli unici beni in suo possesso si rivelarono essere un piccolo conto in banca di circa 150 dollari, una chitarra e la casa in cui era cresciuto.

LA RESISTENZA DEL POPOLO CURDO fra Turchia, Siria, Iraq, Iran

UN POPOLO RESISTENTE

Letture da:

“Hevalen – perché sono andato a combattere l’ISIS in Siria”, di Davide Grasso – Ed. Alegre – collana diretta da Wu Ming 1, 2018

LA RIVOLUZIONE DEI GAROFANI – Il 25 aprile portoghese

La rivoluzione dei garofani (in portoghese Revolução dos cravos) fu l’incruento colpo di Stato militare in Portogallo con cui nel 1974 si pose fine al regime dittatoriale noto come Estado Novo (Nuovo Stato) instaurato da Antònio Salazar nel 1933.

Il rovesciamento di regime fu attuato dalla parte progressista delle forze armate portoghesi che deposero il primo ministro Marcelo Caetano, successore di Salazar, e avviarono la transizione democratica del Paese, che fu portata a compimento al termine di un biennio costellato da aspre lotte politiche.

Durante i regime di Salazar e del suo successore Caetano, la libertà politica era fortemente limitata,  il regime manteneva uno stretto controllo sulle attività dei cittadini attraverso la famigerata polizia politica PIDE (Polícia Internacional e de Defesa do Estado), successivamente divenuta DGS (Direcção-Geral de Segurança), che perseguitava gli oppositori, spesso arbitrariamente arrestati, torturati e uccisi.

La resistenza armata del Portogallo alla decolonizzazione delle colonie africane provocò, fu causa di un lungo e improduttivo confronto armato e i movimenti indipendentisti di Angola, Mozambico, Guinea-Bissau, Capo Verde. La situazione internazionale era sfavorevole al regime. Durante la guerra, le Nazioni Unite approvarono sanzioni riguardanti il commercio di armi nei confronti del Portogallo e gli Stati Uniti impedirono l’uso di mezzi NATO per la repressione coloniale, anche se furono costretti a ritirare il loro appoggio ai movimenti di liberazione di fronte alla minaccia portoghese di abbandonare l’organizzazione.

Nel Portogallo, isolato politicamente ed economicamente, bloccato in lunga  guerra coloniale, la parte progressista delle Forze Armate prese l’iniziativa.

Fu LA RIVOLUZIONE DEI GAROFANI.

Lisbona, 25 aprile 1974.

A mezzanotte e dieci la radio portoghese trasmise una canzone che, pur essendo in libera vendita, non era permesso trasmettere in radio. La canzone era «Grândola vila morena»; composta dal musicista antifascista José Antonio, fu il segnale dato dal Movimento delle Forze Armate per quella notte.


Dei garofani perché? Pare per caso:

La mattina del 25 aprile 1974 Celeste Martins Caeiro era andata a lavorare al Rua Braamcamp, un ristorante self-service di Lisbona che quella stessa mattina avrebbe dovuto festeggiare il suo primo anno di attività. In città però, dalle prime luci dell’alba, si muovevano anche colonne di veicoli blindati dell’esercito che avevano già circondato i palazzi governativi nella zona di Terreiro do Paço. Alla popolazione civile era stato rivolto l’appello di restare a casa e il proprietario, costretto a non aprire il ristorante, aveva allora distribuito ai dipendenti i fiori, preparati come omaggio per quella giornata particolare, e li aveva fatti tornare a casa. Nonostante l’appello la gente era però scesa in strada lo stesso e Celeste Caerio, tornando a casa intorno alle nove del mattino nei presi di Praça do Comêrcio, si era rivolta a un soldato chiedendo cosa stesse davvero succedendo. «Stiamo andando a Carmo a prendere Marcelo Caetano», era stata la risposta secca e Celeste – ignorando ancora che il gesto del tutto spontaneo che stava compiendo avrebbe assunto un significato simbolico e politico enorme – donò appunto quel mazzo di garofani che stava portando a casa. Il resto accadde in fretta e i garofani si moltiplicarono velocemente sui taschini delle uniformi mimetiche, sui berretti dei militari e perfino nelle canne dei fucili.

“Grandola vila morena”, ascoltiamola insieme, perché il nostro 25 aprile di liberazione è stato anche il 25 aprile di liberazione dei Portoghesi dalla dittatura fascista…

Grândola vila morena
Grândola città moresca
Terra da fraternidade
Terra di fratellanza
O povo é quem mais ordena
Il Popolo é chi di più comanda
Dentro de ti ó cidade
Al tuo interno mia città

Dentro de ti ó cidade
Al tuo interno mia città
O povo é quem mais ordena
Il Popolo é chi di più comanda
Terra da fraternidade
Terra di fratellanza
Grândola vila morena
Grândola villaggio dei Mori

Em cada esquina um amigo
In ogni angolo un amico
Em cada rosto igualdade
In ogni volto uguaglianza
Grândola vila morena
Grândola villaggio dei Mori
Terra da fraternidade
Terra di fratellanza

Terra da fraternidade
Terra di fratellanza
Grândola vila morena
Grândola villaggio dei Mori
Em cada rosto igualdade
In ogni volto uguaglianza
O povo é quem mais ordena
Il Popolo é chi di più comanda

À sombra de uma azinheira
All’ombra di un leccio
Que já não sabia a idade
Che non sapeva l’età
Jurei ter por companheira
Ho promesso di avere un compagno
Grândola a tua vontade
Grândola tua volontà

Grândola a tua vontade
Grândola tua volontà
Jurei ter por companheira
Ho promesso di avere un compagno
À sombra de uma azinheira
All’ombra di un leccio
Que já não sabia a idade
Che non sapeva l’età

CHI SONO

Amo sentire raccontare le storie. Per questo motivo sono diventato documentarista e sceneggiatore di film lungometraggi. Qualcuno ricorderà "Il vento fa il suo giro" candidato al Premio David di Donatello per la migliore sceneggiatura e "Un giorno devi andare", regia di Giorgio Diritti. Collaboro con Aranciafilm, Graffitidoc e Nefertiti Film per lo sviluppo di progetti, soggetti, sceneggiature e regie. Ho co-fondato "L'Aura", scuola di cinema di Ostana, nel villaggio di fronte al Monviso in cui vivo. Coltivo l’orto a 1350 metri di quota; raccolgo cavoli, zucchine, porri, insalata, bietole, carote. Zucchine, soprattutto.

Iscriviti alla Newsletter